L’Universo delle alte energie e dei raggi X… Parte II

Nane bianche, stelle di neutroni e buchi neri.

Eccoci nuovamente qui a proseguire la nostra chiacchierata sulle sorgenti a raggi X presenti nel nostro Universo. Tra quelle compatte possiamo annoverare le nane bianche, le stelle di neutroni e i buchi neri. Il gas che fluisce nell’intensa attrazione gravitazionale di questi oggetti viene riscaldato dall’attrito a milioni di gradi durante la sua caduta. Alcuni tipi di stelle binarie possono contenere uno di questi oggetti ultracompatti che danza assieme ad una compagna molto più grande in grado di fornirgli il materiale la cui caduta provoca emissioni luminose ai raggi X. La radiazione emessa da un tale corpo caldo è estremamente intensa, tanto che i raggi X possono essere visti da regioni molto piccole. Spesso gli oggetti più freddi devono essere molto grandi per essere visualizzati nei telescopi poiché irradiano a lunghezze d’onda più lunghe e meno energetiche. Questa capacità di addentrarsi nelle zone più interne di alcuni degli oggetti più bizzarri ed energetici dell’Universo è un potente incentivo a costruire telescopi a raggi X sempre più sensibili.

Cygnus X-1 si trova a circa 10.000 anni luce dalla Terra. È uno dei luoghi più violenti della nostra Galassia. Il buco nero, Cygnus X-1, contiene circa cinque volte la massa del Sole, compressa in una minuscola sfera di pochi chilometri di diametro. A causa della sua densità, possiede un enorme campo gravitazionale, che allontana la materia dalla sua stella compagna, HDE 226868. La compagna è una stella massiccia, nota come supergigante blu. Ha una temperatura superficiale estremamente calda di 30.000 °C. Quando il gas si muove a spirale verso il buco nero, si riscalda ulteriormente ed emette raggi X e raggi gamma.

Galassie attive

Stranamente, un’immagine a raggi X della Luna ha portato gli astronomi a comprendere meglio la natura delle galassie in tutto l’Universo. Una straordinaria immagine scattata nel 1990 dal satellite ROSAT mostra chiaramente il disco della Luna, con un lato illuminato dai raggi X riflessi dal Sole e l’altro visto in sagoma oscurata contro quello che sembra essere un cielo con lo sfondo luminoso a raggi X. Per molti anni non è stato chiaro cosa potesse produrre esattamente questo fondo cosmico di raggi X. È un bagliore uniforme come il fondo cosmico a microonde visto nello spettro del radio, o proviene da una moltitudine di deboli sorgenti individuali? Questo background è stato rilevato dai primi esperimenti missilistici nei primi anni ’60 e il mistero è persistito per decenni.

Questa straordinaria immagine a raggi X della Luna è stata scattata nel 1990 dal satellite ROSAT e mostra i singoli rilevamenti di raggi X nella fotocamera come punti. A prima vista si vede la parte luminosa della Luna che riflette i raggi X del Sole, ma se si guarda più da vicino si può vedere il lato oscuro della Luna ombreggiare su uno sfondo di oggetti che emettono raggi X (il segnale più debole “di fronte “della parte oscura del disco lunare si pensa che sorga nelle parti più esterne dell’atmosfera terrestre).

Mano a mano che il potere risolutivo dei telescopi a raggi X migliorava, divenne evidente che, a differenza del fondo cosmico a microonde realmente diffuso, il fondo a raggi X sembrava essere in gran parte composto da singole sorgenti distribuite in modo molto uniforme nel cielo. Se la radiazione avesse avuto origine nella nostra Via Lattea, tale uniformità sarebbe stata difficilmente comprensibile e quindi si è ipotizzato che le sorgenti fossero a grandi distanze dette anche “cosmologiche”. Ora è diventato chiaro che la maggior parte della radiazione ha origine in galassie attive che emettevano raggi X quando l’Universo si trovava nel pieno della sua mezza età.

Anche alcune galassie relativamente vicine emettono grandi quantità di radiazioni X. In molte di esse, questa radiazione sembra essere associata al rilascio di energia dal materiale che circonda i buchi neri supermassicci che potrebbero risiedere al centro di esse. Quando questo buco nero è in attività ed irradia, viene chiamato nucleo galattico attivo o AGN. Solo una piccola parte delle galassie a noi vicine ha buchi neri sempre in attività. Tuttavia, questa frazione sembra essere stata più grande nel Medioevo cosmico, come si può vedere nell’immagine del XMM-Newton Deep Field nella figura seguente.

Una visione attuale molto profonda, con oltre cento ore di esposizione e quasi tre diametri lunari, di parte del cielo a raggi X visto dal satellite XMM-Newton dell’ESA. Questo mostra come lo sfondo dei raggi X si scompone in sorgenti discrete che differiscono l’una dall’altra per “colore”. In questa immagine, il blu codifica le sorgenti che contengono un’alta percentuale di raggi X ad alta energia chiamati “duri” mentre il rosso rappresenta quelli dominati dai raggi X a bassa energia chiamati “morbidi”.

Questo sembra essere stato un momento speciale nella storia dell’Universo, abbastanza tardi affinchè i buchi neri al centro delle galassie diventassero grandi, ma abbastanza presto perché le galassie fossero ancora molto ricche di gas per alimentare l’attività. Oggi il gas nelle galassie è più stabile e raramente si avvicina abbastanza da alimentare il buco nero al centro e creare un AGN.

Cluster di Galassie

Le galassie non sono solitarie, ma tendono a formarsi in ammassi, a volte contenenti centinaia o addirittura migliaia di membri. Attraverso la storia cosmica crescono attraendo gravitazionalmente singole galassie e piccoli gruppi di galassie. Tali ammassi sono anche fonti significative di luce a raggi X. Infatti, più grande è l’ammasso, più luminoso appare generalmente il bagliore diffuso dei raggi X.

Un’immagine dell’ammasso di galassie MS0735.6+742, a circa 2,6 miliardi di anni luce di distanza nella costellazione della Giraffa. La vista in luce visibile presa con Hubble nel 2006 mostra l’ammasso di galassie (in bianco) insieme ad alcune galassie sullo sfondo e stelle in primo piano. L’immagine dell’Osservatorio Chandra (in blu) mostra la distribuzione di cinquanta milioni di gradi di gas che pervade l’ammasso ad eccezione delle enormi cavità – quasi sette volte il diametro della Via Lattea – nella parte sinistra e destra dell’immagine, che sono piene di particelle cariche di velocità e un campo magnetico. Una combinazione che emette in modo efficiente onde radio. L’immagine radio (violetto) proviene dal VLA nel New Mexico. Il processo che alimenta l’emissione radio – getti dal buco nero supermassiccio centrale – ha spinto da parte il gas del peso di circa mille miliardi di volte la massa del Sole.
Tradizionalmente le immagini a raggi X di ammassi di galassie hanno mostrato distribuzioni relativamente uniformi di gas molto caldo (da dieci a cento milioni di gradi). Questa immagine dell’ammasso galattico di Perseo, scattata con l’osservatorio a raggi X Chandra, racconta una storia diversa. Enormi anelli luminosi, increspature e striature simili a getti sono evidenti nell’immagine. I filamenti blu scuro al centro sono probabilmente dovuti a una galassia che è stata fatta a pezzi e sta cadendo nella galassia gigante centrale la NGC 1275. Si presume che la pressione del gas caldo sia bassa in alcune aree dell’ammasso, a causa di bolle invisibili ad alta energia che hanno spostato le particelle del gas. I pennacchi sono dovuti allo sfiato esplosivo nelle vicinanze del buco nero supermassiccio. Lo sfiato produce onde sonore che riscaldano il gas nelle regioni interne dell’ammasso e ne impediscono il raffreddamento e la formazione di stelle ad alta velocità. Questo processo ha rallentato la crescita di una delle galassie più grandi dell’Universo. L’immagine fornisce un drammatico esempio di come un buco nero relativamente piccolo, ma massiccio, al centro di una galassia possa controllare il riscaldamento e il raffreddamento del gas ben oltre i confini della galassia stessa.

A volte ci vuole qualcosa che puoi vedere per aiutarti a capire qualcos’altro che non puoi vedere. È il caso della cosiddetta materia oscura nelle galassie e negli ammassi. Gli astronomi che misurano i moti delle stelle nelle galassie e delle galassie negli ammassi, calcolano che ci deve essere molta più massa intorno ad esse rispetto alla quantità di materia che possiamo vedere, anche usando l’intero spettro elettromagnetico. Per questo gli è stato dato il nome di “Materia oscura” – in parte perché non possiamo vederla, ma forse più come segno della nostra ignoranza sulla sua vera natura. Un lavoro svolto dagli scienziati nello spettro dei raggi X e pubblicato nel 2006, tuttavia, ha contribuito a confermare la realtà della materia oscura e a darci maggiori informazioni sulle sue proprietà. Gli astronomi hanno assemblato l’immagine composita del “Bullet Cluster” sotto riportata.

Questo è in realtà composto da due ammassi in collisione, molti dei quali possono essere visti nell’immagine di sfondo a luce visibile. Sovrapposti a questo vi sono l’emissione di gas a raggi X (rosso) e una mappa della maggior parte della massa dell’ammasso (blu). La concentrazione di massa viene determinata utilizzando l’effetto della lente gravitazionale per indicare dove la luce delle galassie sullo sfondo dietro l’ammasso proiettile è maggiormente distorta dalla massa dell’ammasso. Dove la distorsione è maggiore, il Bullet Cluster deve avere la massa maggiore.

L’offset tra il gas (rosso) a raggi X e la misurazione della massa (blu) mostra una sorprendente differenza tra la materia normale e quella oscura nei due ammassi. Il grumo rosso a forma di proiettile sulla destra è il gas caldo di un ammasso, che è passato attraverso il gas caldo dell’altro ammasso più grande durante la collisione. Entrambe le nubi di gas sono state rallentate da una forza di trascinamento, simile alla resistenza dell’aria, durante la collisione. Al contrario, la materia oscura non è stata rallentata dall’impatto perché – a quanto pare – non interagisce direttamente con se stessa o con il gas se non attraverso la gravità. Pertanto, durante la collisione i grumi di materia oscura dei due ammassi si sono mossi davanti al gas caldo, producendo la separazione della materia oscura da quella visibile. Questo risultato è una prova diretta che la maggior parte della materia negli ammassi è oscura e molto diversa dalla materia normale!

Per il momento ci fermiamo qui. Nel prossimo post concluderemo il nostro viaggio a cavallo dei raggi X, esplorando anche la parte di Universo più vicina a noi: il sistema solare. Stay tuned!

L’Universo delle alte energie e dei raggi X… Parte I

Oltre l’ultravioletto si raggiungono le energie più elevate dello spettro elettromagnetico. Dai raggi X ai raggi gamma ancora più energetici, i fotoni sempre più rari devono essere contati uno per uno. Solo i fenomeni più drammatici generano luce a questa estremità dello spettro. Ciò significa che i raggi X e gamma sono la nostra finestra sullo studio dei processi cataclismici come le esplosioni di stelle massicce e le stelle di neutroni e i buchi neri che si lasciano dietro, così come i plasmi caldi negli ammassi di galassie e nelle stelle vicine.

SUPERNOVA REMNANT G292.0 + 1.8

Questa bellissima immagine a raggi X presa dal telescopio Chandra mostra il resto della supernova 292.0 + 1.8. Questa è la conseguenza della morte di una stella enorme. Il materiale espulso dalla supernova corre verso l’esterno e va a sbattere contro il gas circostante creando onde d’urto che riscaldano il materiale e vengono emessi raggi X. Mappando la distribuzione dei raggi X in diverse bande di energia, l’immagine di Chandra traccia lo stato del materiale espulso dalla supernova. I risultati implicano che l’esplosione non era simmetrica. Ad esempio, il blu (silicio e zolfo) e il verde (magnesio) si vedono fortemente in alto a destra, mentre il giallo e l’arancione (ossigeno) dominano in basso a sinistra. Questi elementi si accendono a diverse temperature, ad indicare che la temperatura è più alta nella porzione in alto a destra di G292.0+1.8.

I fotoni a raggi gamma e i raggi gamma hanno lunghezze d’onda così piccole che devono essere misurate in miliardesimi (nanometri 10-9 metri) e trilionesimi (picometri 10-12 metri). Non esiste una lunghezza d’onda più piccola all’estremità dei raggi gamma dello spettro, oltre i limiti pratici di quanta energia può essere stipata in un singolo fotone dai processi che li generano. Gli astronomi rilevano questi fotoni caso per caso, rendendo difficile la creazione di immagini nella banda dei raggi X e ancora più impraticabile nella banda dei raggi gamma. In effetti, fino ad oggi, sono state costruite pochissime immagini di raggi gamma.

I raggi X a bassa energia, che si sovrappongono al regime ultravioletto estremo (8 nm – 0,2 nm) sono noti come “raggi X morbidi”. Questi sono suscettibili all’assorbimento da parte degli atomi e come la luce visibile e ultravioletta, tendono ad essere oscurati da dense nubi di polvere e gas. I “raggi X duri” sono raggi a più alta energia e si sovrappongono al regime dei raggi gamma ad energie inferiori (0,2 nm – 10 pm). Questi ultimi sono meno assorbibili, quindi tendono a penetrare nelle nuvole. I raggi gamma vanno dai 10 pm in giù e rappresentano l’estremità di energia più alta dello spettro elettromagnetico.

Sorgenti di raggi X

Raggi X termici

I fotoni di raggi X hanno energie migliaia di volte più grandi dei fotoni di luce visibile rilevati dai nostri occhi. Se questi fotoni fossero puramente il risultato di processi termici, o di corpo nero, ci dovrebbero essere molti oggetti con temperature comprese tra circa un milione e cento milioni di gradi. La scoperta di alcune sorgenti a queste temperature è stata una sorpresa poiché anche le stelle più massicce non sono così calde.

Radiazione di corpo nero

Mentre le stelle stesse potrebbero non raggiungere temperature di milioni di gradi, l’esplosione di quelle più massicce può farlo. Quando i detriti caldi espulsi dall’esplosione colpiscono il mezzo interstellare circostante, le onde d’urto risultanti possono riscaldarlo ancora di più. È una specie di boom sonico cosmico, ma invece di sentire il boom, vediamo i fotoni generati dallo shock. Questi resti di supernova possono creare obiettivi spettacolari per i telescopi a raggi X. Tuttavia, non ci vuole una supernova per riscaldare almeno parte del gas attorno a una stella. Anche il nostro Sole ha un’atmosfera esterna o corona, che può raggiungere milioni di gradi. Cadendo al di fuori di quella che consideriamo la sua superficie visibile, questo gas sparso è riscaldato da processi che hanno lasciato perplessi gli astronomi che hanno scoperto la sua emissione ai raggi X. Fenomeni violenti sulla superficie spesso intorno alle macchie solari più scure e leggermente più fredde sulla superficie del Sole, creano suoni e onde magnetiche che si propagano verso l’alto nell’atmosfera esterna sempre più tenue, la cromosfera e la corona. Man mano che la densità diminuisce, le onde diventano sempre più estreme, un po’ come le onde dell’acqua che si infrangono su una spiaggia in pendio. Alla fine diventano onde d’urto che surriscaldano il gas.

Linee spettrali dei raggi X

Abbiamo visto che in altre parti dello spettro, i cambiamenti nello stato energetico degli elettroni negli atomi possono generare emissioni di righe spettrali a lunghezze d’onda specifiche. Per elementi leggeri come idrogeno ed elio, tali righe tendono ad apparire nella luce ultravioletta, visibile e infrarossa. Tuttavia, elementi più massicci con nubi di elettroni più grandi possono avere transizioni di elettroni di energie così elevate da creare righe spettrali dei raggi X. Le temperature richieste per generare le righe spettrali dei raggi X sono piuttosto elevate, poiché non si ottiene mai energia senza immetterla. Il loro studio può aiutare gli scienziati a capire la composizione del materiale espulso in tali esplosioni.

Processi non termici

I raggi X provengono anche da sorgenti che non sono sufficientemente calde per generarli come radiazione termica di corpo nero. Tali processi vengono chiamati non termici. Per esempio, in alcune regioni le particelle cariche come elettroni e protoni vengono potenziate quasi alla velocità della luce (a volte vengono trascinate lungo campi magnetici vorticosi, come perline su un filo). Quando tali particelle sono costrette a cambiare direzione mentre passano lungo questi campi magnetici, emettono radiazione di sincrotrone e possono essere viste in tutto lo spettro elettromagnetico, compresi i raggi X.

Cassiopea A ai raggi X

Questa immagine a raggi X scattata dal satellite Chandra mostra il più giovane residuo di Supernova nella galassia della Via Lattea chiamato Cassiopea A. Si trova ad una distanza di circa 13.000 anni luce e se non fosse stata avvolta da un denso bozzolo di polvere, quando la massiccia stella esplose, sarebbe stata facilmente visibile dagli osservatori poco più di tre secoli fa. Oltre ad essere una sorgente luminosa di raggi X, Cassiopea A è la più brillante sorgente radio nel cielo a parte il Sole. Il materiale espulso dalla stella nell’esplosione (in questa immagine visto come rosso e verde) viene riscaldato a circa dieci milioni di gradi. Il guscio di espansione (blu) si sta muovendo verso l’esterno a sedici milioni di km/h e si trova alla temperatura ancora più elevata di trenta milioni di gradi. Quando questo guscio urta il gas interstellare circostante, crea un’onda d’urto che riscalda il gas a questi valori elevati. Si ritiene che queste regioni d’urto siano uno dei siti in cui le particelle cosmiche vengono accelerate a velocità prossime a quella della luce.

Nel prossimo articolo continueremo la nostra chiacchierata sui raggi X e i diversi oggetti nell’Universo che li emettono.

JWST Space Telescope: new era…

Finalmente il James Webb Space Telescope (da qui in poi JWST) sta viaggiando a 1.7567 km/s verso il punto d’inserimento nell’orbita L2, dove una volta terminate le operazioni di dispiegamento delle sue componenti, potrà iniziare la sua missione esplorativa. Iniziamo a capire perchè si posizionerà nell’orbita L2.

Il punto L2

L’obiettivo principale è posizionare il telescopio in modo tale che il suo moto non venga disturbato dall’attrazione gravitazionale di altri corpi celesti: quando un satellite viene lanciato in orbita nello Spazio, si ritrova a subire l’attrazione di qualsiasi oggetto dotato di massa, principalmente dai pianeti vicini e dal Sole, che ne disturbano la traiettoria modificandola in modo considerevole. L2 è il nome dato ad un punto speciale che si trova sulla retta che passa per il centro del Sole e per il centro della Terra. Posizionandosi in L2, JWST verrà certamente attratto sia dalla Terra che dal Sole, ma nessuna delle due attrazioni combinate lo farà avvicinare, perché a quella distanza il telescopio avrà una velocità sufficiente da permettergli di mantenere un orbita “circolare” grazie all’effetto della forza centrifuga.

L’aggettivo circolare è volutamente virgolettato perché in realtà l’orbita in questione non è propriamente una circonferenza e non potrebbe esserlo, perché c’è una complessa interazione tra i tre corpi. Per la precisione, l’orbita che il JWST percorrerà è detta orbita Halo, un’orbita che non giace su di un piano, ma che è tridimensionale ed è formata da molte piccole dune, che porteranno il telescopio ad oscillare proprio attorno a questo punto, mentre percorre l’orbita.

In questo video viene mostrata l’orbita L2 in giallo.

Calcolare il punto rientra nel cosiddetto “problema dei tre corpi” (nel nostro caso Sole – Terra – JWST), un problema di meccanica orbitale risolto con successo dal matematico Joseph-louis Lagrange nel XVIII secolo, i cui risultati sono tutt’ora utilizzati. Il problema, in sostanza, recita: “E’ possibile trovare una configurazione per cui tre corpi possano orbitare l’uno attorno all’altro rimanendo sempre nella stessa posizione relativa tra loro?”.
La soluzione di questo problema permise di identificare 5 punti nello spazio nei quali è possibile posizionare un satellite bilanciando l’attrazione gravitazionale del Sole, chiamati “Punti di Lagrange“.

Di tutti e 5 i punti, L2 è il più vantaggioso: è lontano dal Sole, e da quella posizione il telescopio è orientato in direzione opposta (di spalle) evitando che la luce nell’infrarosso emessa dalla nostra stella possa investirlo. Il JWST è un telescopio che opera nell’infrarosso, dunque è di vitale importanza che le sue osservazioni non vengano disturbate da una così potente fonte di radiazioni infrarosse quale è il Sole. Il suo scudo servirà proprio a proteggere la strumentazione dalla luce solare e dalle alte temperature cui sarà soggetta. Basti pensare che le superfici del telescopio rivolte verso il Sole raggiungeranno una temperatura di 85°C, mentre quelle esposte in direzione di osservazione raggiungeranno circa i -233°C. Uno scudo decisamente protettivo. E affinché sia sempre così efficace, è importante che il Sole resti sempre alle spalle del JWST, ovvero nella stessa posizione relativa. Anche in questo caso l’aggettivo “relativa” è virgolettato, perché lo spazio, essendo isotropo, non ha nessuna direzione privilegiata.

La scienza del JWST

JWST fornirà osservazioni all’avanguardia che approfondiranno i misteri dei primi oggetti che si sono formati nell’universo primordiale, dalla formazione delle galassie, alla nascita di stelle e di sistemi planetari e le origini della vita stessa.

La fine dei secoli bui: prima luce e reionizzazione

La teoria e l’osservazione ci hanno fornito un’immagine semplice dell’universo primordiale. Man mano che l’universo si espandeva e si raffreddava, si formavano alcune molecole di idrogeno, che a loro volta consentivano la formazione delle prime stelle individuali. Le prime stelle si sono formate in quelle regioni che erano le più dense.

Secondo la teoria e le osservazioni della sonda Wilkinson Microwave Anisotropy Probe (WMAP), l’universo si è espanso di un fattore 20, la densità media era 8000 volte maggiore di quella attuale e l’età dell’Universo era di circa 180 milioni di anni. Sempre secondo la teoria, queste prime stelle erano da 30 a 1000 volte più massicce del Sole e milioni di volte più luminose e bruciavano il loro combustibile solo per pochi milioni di anni prima di incontrare una fine violenta. Il destino di ognuna di esse poteva manifestarsi sotto forma di supernova oppure direttamente in un buco nero. Le supernove permettevano l’arricchimento del gas circostante con gli elementi chimici prodotti al loro interno e le future generazioni di stelle contenevano tutte questi elementi più pesanti i metalli. I buchi neri iniziarono invece ad ingoiare gas e altre stelle per diventare dei mini-quasar, crescendo e fondendosi per diventare gli enormi buchi neri che ora si trovano al centro di quasi tutte le galassie. La distinzione è importante, perché solo le supernove restituiscono elementi pesanti al gas che in seguito formerà la nuova generazione di stelle. Le supernove e i mini-quasar, dovrebbero essere osservabili dal JWST. Entrambi potrebbero anche essere fonti di lampi di raggi gamma e di onde gravitazionali che potrebbero essere scoperti da altri osservatori (a terra e nello spazio) e quindi osservati in seguito da JWST. A tale scopo l’astronomia multimessaggera assumerà un ruolo sempre più importante. Oltre alle supernove delle prime stelle il JWST sarà in grado di rilevare anche le prime galassie e gli ammassi stellari.

Image showing first light and reionization
The End of the Dark Ages: First Light and Reionization

Formazione delle galassie

Le galassie sono i mattoni visibili dell’universo. La teoria e l’osservazione ci danno anche un’immagine privilegiata dell’assemblaggio delle galassie stesse. Sembra che prima si siano formati piccoli oggetti che in seguito si sono fusi tra loro per formare strutture più grandi. Questo processo si verifica ancora oggi, poiché la nostra Via Lattea si fonde con alcuni dei suoi compagni nani mentre la Galassia di Andromeda si dirige verso la Via Lattea per una futura fusione che potrebbe avvenire tra 5 miliardi di anni. Le galassie più antiche mai rilevate sono state osservate indietro nel tempo,entro il primo miliardo di anni dopo il Big Bang.

Nonostante tutto il lavoro svolto fino ad oggi, molte domande sono ancora aperte. Non sappiamo davvero come si formano le galassie, cosa controlla le loro forme, i processi di creazione stellare, come gli elementi chimici vengono generati e ridistribuiti attraverso le galassie, se i buchi neri centrali esercitano una grande influenza sulle galassie, o quali siano gli effetti di eventi violenti quando porzioni piccole e grandi si fondono attraverso le collisioni.

L’obiettivo del JWST è osservare le galassie fino ai loro primi precursori (redshift z>10) in modo da poter comprendere la loro crescita e la loro evoluzione morfologica e metallica. Per raggiungere questo obiettivo, il JWST dovrà fornire immagini spettroscopiche nella banda da 0,6 a 27 µm.

Distant galaxies as seen by Hubble and JWST.
Distant galaxies as seen by Hubble and JWST. The two images at the top show the Hubble Ultra Deep Field obtained with WFC3/IR in three filters. The two images at the bottom are simulations of what the deep field may look like with JWST/NIRCam. JWST images will be both sharper and extend to fainter limits compared to Hubble.

Nascita delle stelle e sistemi protoplanetari

Mentre le stelle sono un argomento classico dell’astronomia, solo in tempi recenti abbiamo iniziato a comprenderle con osservazioni dettagliate e simulazioni al computer. Cent’anni fa non sapevamo che fossero alimentate dalla fusione nucleare, e cinquant’anni fa non sapevamo che le stelle si formano continuamente. Non conosciamo ancora i dettagli di come si formano da nubi di gas e polvere, o perché la maggior parte delle stelle si formano in gruppi, o come si formano i pianeti. Inoltre, non conosciamo i dettagli di come si evolvono e liberano i metalli pesanti nello spazio per il riciclaggio in nuove generazioni di stelle e pianeti. In molti casi, queste vecchie stelle, hanno effetti importanti sulla formazione di nuove.

Le osservazioni mostrano che la maggior parte delle stelle si forma in più sistemi stellari e che molte hanno pianeti. Tuttavia, c’è poco accordo su come ciò avvenga, e la scoperta di un gran numero di pianeti massicci in orbite molto ravvicinate attorno alle loro stelle è stata molto sorprendente. Sappiamo anche che i pianeti sono comuni intorno alle stelle di tipo tardivo (più fredde e meno massicce del Sole) e che i dischi di detriti potrebbero segnalare la loro presenza.

L’obiettivo del JWST è quello di svelare la nascita e l’evoluzione iniziale delle stelle, partendo dalle protostelle avvolte dalla polvere, fino alla genesi dei sistemi planetari. Il JWST è stato concepito proprio per cercare una risposta a questi misteri grazie alla combinazione delle sue modalità di osservazione ad alta risoluzione, imaging, spettroscopia e capacità coronografiche, sommate ad un’eccellente sensibilità nel vicino e medio infrarosso.

These dusty young stars are changing the rules of planet-building
Young stars are changing the rules of planet-building

I sistemi planetari e le origini della vita

Comprendere l’origine della Terra e la sua capacità di sostenere la vita, è un obiettivo chiave per tutta l’astronomia ed è fondamentale per il programma scientifico JWST. Le parti chiave della storia includono la comprensione della formazione di piccoli oggetti e come si combinano per formarne di più grandi, l’apprendimento di come raggiungono le loro orbite attuali, l’apprendimento di come i grandi pianeti influenzano gli altri in sistemi come il nostro e l’apprendimento della storia chimica e fisica degli oggetti piccoli e grandi che hanno formato la Terra ed hanno fornito i precursori chimici necessari per la vita. Gli oggetti freddi e la polvere nel sistema solare esterno sono la prova delle condizioni del sistema solare primordiale e sono direttamente paragonabili agli oggetti freddi ed alla polvere osservati intorno ad altre stelle.

L’obiettivo del JWST è determinare le proprietà fisiche e chimiche dei sistemi planetari ed investigare il potenziale per le origini della vita in quei sistemi. Il JWST dovrà fornire immagini nel vicino e medio infrarosso per osservare gli esopianeti.

Il tema dell’esplorazione planetaria del JWST includerà anche le osservazioni del nostro sistema solare con imaging e caratterizzazione spettroscopica di Marte e dei pianeti esterni, degli oggetti della fascia di Kuiper, i pianeti nani, lune ghiacciate e le comete.

Artist rendering of the birth of stars and protoplanetary systems
Planetary system

Dov’è il JWST?

Grazie al JWST i prossimi 5-10 anni potrebbero cambiare molte delle nostre attuali teorie riguardanti le prime fasi dell’Universo, l’evoluzioni delle stelle, delle galassie e dei sistemi planetari. In attesa di queste nuove scoperte, se volete tracciare il JWST, seguitelo qui nella web page della NASA.

E per finire ecco un meeting che vede Brian Greene (noto fisico teorico) in veste di moderatore, che dialoga con gli scienziati che hanno partecipato al progetto del JWST.

Things We’ve Never Seen: The James Webb Space Telescope Explores the Cosmos

BICEP3 riduce i confini all’inflazione cosmica.

Nuove analisi delle osservazioni sulla radiazione cosmica di fondo (CMBR) del telescopio BICEP3 al Polo Sud hanno rimesso in discussione diversi modelli popolari dell’inflazione.

Dusting for the fingerprint of inflation with BICEP3 | symmetry magazine
Il telescopio BICEP3 al Polo Sud. (BICEP/Keck Collaboration)

I fisici sono da tempo a caccia dei segni delle onde gravitazionali primordiali, setacciando la radiazione cosmica di fondo. Ma ad oggi gli sforzi non hanno prodotto dei risultati.

Ma lungi dall’essere un disastro, tale ricerca può oggi avvalersi ed arrichirsi grazie agli ultimi risultati dell’esperimento BICEP3 che hanno delineato e rafforzato i limiti dei modelli d’inflazione cosmica. Ma cos’è l’inflazione cosmica? E’ un processo che in teoria spiega diverse caratteristiche sconcertanti del nostro Universo e come risultato avrebbe dovuto produrre onde gravitazionali subito dopo i primissimi istanti di vita. Adesso con questi nuovi dati raccolti e le successive analisi possiamo dire che i modelli di inflazione un tempo promettenti sono ora esclusi dai giochi.

L’esplosione primordiale.

L’inflazione cosmica è l’idea che nei primissimi istanti di vita del nostro Universo, la quantità di spazio è passata dalle dimensioni di un atomo di idrogeno a circa un anno luce di diametro, nello stesso tempo (un trilionesimo di secondo) necessario alla luce per attraversare lo stesso atomo.

L’inflazione può spiegare molte cose, in particolare perché l’universo sembra essere abbastanza uniforme e ha lo stesso aspetto in tutte le direzioni, perché lo spazio è piatto e perché non ci sono monopoli magnetici. Tuttavia, i fisici non sono ancora riusciti ad elaborare i dettagli esatti e hanno escogitato molti modi diversi in cui potrebbe essersi verificata l’inflazione.

Un modo per stabilire quale di questi modelli inflazionistici è corretto, se esiste, è quello di cercare le onde gravitazionali che sarebbero state prodotte quando lo spazio si è espanso e la materia e l’energia in esso contenute si sono espanse. In particolare, quelle onde dovrebbero lasciare un’impronta sulla polarizzazione della luce nel fondo cosmico a microonde.

Onde gravitazionali polarizzate.

In generale, questa impronta di polarizzazione ha due componenti geometriche. Invece di descriverla con le definizioni Nord-Sud ed Est-Ovest, che dipendono da una scelta arbitraria di coordinate, possiamo descriverla per il suo orientamento rispetto a se stessa.

Ci sono due direzioni individuate da un modello di polarizzazione: quella che viene rilevata dal suo orientamento e quella che viene rilevata dalla sua ampiezza. Le ampiezze dei pattern di polarizzazione sono modulate nello spazio dall’onda piana su cui si trovano.

Percorsi di polarizzazione

Qui l’onda piana sta andando nella direzione su-giù (Nord-Sud). Se la polarizzazione è parallela o perpendicolare a questa direzione, si parla di polarizzazione E-mode. Se è attraversato ad angoli di 45 gradi, si parla di polarizzazione B-mode.

Il modello di polarizzazione completa è una sovrapposizione casuale di questi modelli modulati dalle onde piane. Il modello B-mode mantiene la sua natura speciale che risiede nel fatto di possedere una proprietà che distingue la sinistra dalla destra. Ad esempio, ecco due campi di polarizzazione con la stessa struttura ma in modalità E a sinistra e modalità B a destra.

Polarizzazione E-mode a sinistra e B-mode a destra.

Sebbene i dettagli dipendano da quale modello di inflazione è corretto, le onde gravitazionali primordiali dovrebbero presentarsi come modelli particolari dei modi B ed E.

A partire dalla metà degli anni 2000, i ricercatori hanno iniziato a studiare la polarizzazione in modalità B della radiazione cosmica di fondo, alla ricerca di prove di onde gravitazionali primordiali. Nel corso del tempo, i dettagli degli esperimenti sono cambiati considerevolmente.

Il primo esperimento BICEP ha utilizzato circa 50 trombe metalliche che rilevano piccole differenze nella radiazione a microonde, ognuna dotata di sensori termici e griglie polarizzanti per misurare la polarizzazione. La generazione successiva, BICEP2, ha richiesto un salto tecnologico: nuovi rivelatori superconduttori più densamente ammassati nella stessa area dei telescopi precedenti. Il successore Keck Array era essenzialmente costituito da diversi telescopi BICEP2 in uno.

Per arrivare al livello successivo, BICEP3, si è reso necessario inventare letteralmente alcune cose durante la fase di progettazione ed evoluzione.

I progettisti hanno sviluppato una nuova serie di sistemi e materiali. Tra questi ci sono componenti del rivelatore che sono più modulari, più facili da sostituire con lenti e filtri che sono più trasparenti alle microonde mentre bloccano in modo più efficiente la luce infrarossa, il che aiuta a mantenere freschi i rivelatori a microonde superconduttori sensibili alle temperature.

Questi progressi tecnologici combinati con i dati di esperimenti precedenti tra cui BICEP2, Keck, WMAP e Planck, hanno permesso ai ricercatori di stabilire dei limiti più ristretti su quali tipi di onde gravitazionali primordiali potrebbero essere là fuori – e quindi i limiti più stringenti sui modelli dell’inflazione cosmica.

La ricerca continua.

I risultati odierni escludono una serie di modelli di inflazione, inclusi alcuni modelli più vecchi e popolari e alcune versioni di quelli più recenti, motivati ​​dalla teoria delle stringhe. Essi suggeriscono che il modello corretto sarà leggermente più complicato di quelli che sono stati esclusi, sebbene vi sia ancora un’ampia gamma di valide alternative.

Man mano che arriveranno più dati da BICEP3 e dal suo immediato successore, il BICEP Array, così come da altri progetti, i fisici inizieranno a ottenere indizi che aiuteranno a focalizzare ancora di più la loro ricerca sui modelli d’inflazione. Tuttavia, si dovrà aspettare fino alla partenza dell’esperimento CMB-S4, un progetto attualmente in fase di revisione, per ottenere risposte più chiare. Il CMB-S4 dispiegherà un arsenale tecnologico equivalente a circa 21 telescopi tra il Polo Sud e il deserto di Atacama in Cile e ci vorrà circa un decennio prima che possa entrare a pieno titolo in funzione.

Il progetto del telescopio da 5 metri anastigmatico a tre specchi che verrà installato al Polo Sud.
Il progetto del telescopio da 6 metri Cross-Dragon che verrà installato in Cile.

Nel prossimo articolo, continueremo il nostro viaggio nell’affascinante mondo della radiazione elettromagnetica.

Oltre la foto del secolo, alla ricerca dei semi…

Oggi voglio stuzzicare la vostra curiosità astronomica, parlando dell’origine dei buchi neri supermassicci esistiti ai primordi della storia cosmica.

Prima di iniziare il nostro viaggio, voglio consigliarvi la visione di un video di Alberto Bonato. Partendo dalla foto del secolo, che mostrava al mondo la prova tangibile dell’esistenza dei buchi neri, vi guida con una narrativa ed uno stile divulgativo molto semplice ed efficace alla comprensione di uno dei fenomeni più esotici dell’Universo. Il video lo potete vedere qui.

Here we go! Immaginiamo l’universo neonato. La maggior parte degli scienziati ritiene che lo spazio e il tempo abbiano avuto origine con il big bang. Da quell’inizio caldo e denso il cosmo si espanse e si raffreddò, ma ci volle un po’ prima che stelle e galassie iniziassero a popolare il cielo. Fu solo 380.000 anni circa dopo il big bang che gli atomi poterono rimanere coesi e riempire l’universo, per lo più di idrogeno. Quando il cosmo raggiunse un’età di alcune centinaia di milioni di anni, questo gas si radunò a formare le prime stelle, che costituirono ammassi che si riunirono in galassie, la più antica delle quali apparve 400 milioni di anni dopo la nascita dell’universo. Si è scoperto che, sorprendentemente, anche un’altra classe di oggetti astronomici cominciò ad apparire in quel periodo: i quasar.

I quasar sono oggetti estremamente luminosi alimentati da gas che cade in buchi neri supermassicci. Sono tra gli oggetti più brillanti dell’universo, visibili fino ai confini più remoti dello spazio. I quasar più distanti sono anche i più antichi, e quelli più vecchi in assoluto rappresentano un mistero. Per essere visibili a distanze incredibili, questi quasar devono essere alimentati da buchi neri con circa un miliardo di volte la massa del Sole. Le teorie sulla formazione e la crescita dei buchi neri prevedono che un buco nero abbastanza grande da alimentare questi quasar non si sarebbe potuto formare in meno di un miliardo di anni.

L'accecante luminosità dei quasar | by Michele Diodati | Spazio Tempo Luce  Energia

Nel 2001, tuttavia, con la Sloan Digital Sky Survey, gli astronomi hanno iniziato a rilevare quasar ancora più vecchi. Ad oggi il quasar più antico e più lontano conosciuto, P172+18, distante 13 miliardi di anni luce, esisteva appena 780 milioni di anni dopo il big bang. In altre parole, non sembra che ci sia stato abbastanza tempo nella storia dell’universo affinché si formassero quasar come questo.

Molti astronomi ritengono che i primi buchi neri, i cosiddetti semi di buchi neri, siano i resti delle prime stelle, i cadaveri rimasti dopo che le stelle sono esplose in supernove. La massa di questi resti stellari, però, non dovrebbe essere più grande di poche centinaia di masse solari. È difficile immaginare uno scenario in cui i buchi neri che alimentano i primi quasar siano cresciuti a partire da semi così piccoli.

Questi semi invece, si sarebbero formati direttamente dal gas. Vengono denominati buchi neri a collasso diretto (direct-collapse black hole, DCBH). Nell’ambiente giusto, questi buchi neri potrebbero essere nati con 104 o 105 masse solari poche centinaia di milioni di anni dopo il big bang. Con questo vantaggio iniziale, avrebbero potuto facilmente arrivare a 109 o 1010 masse solari, producendo in questo modo gli antichi quasar che rendono perplessi gli astronomi da quasi due decenni.

I semi

I buchi neri sono oggetti astronomici enigmatici, aree in cui la gravità è così immensa che ha deformato lo spazio-tempo al punto che nemmeno la luce ne può sfuggire. Solo con la scoperta dei quasar, che permettono agli astronomi di vedere la luce emessa dalla materia che cade nei buchi neri, abbiamo avuto la prova che si trattava di oggetti reali e non solo di curiosità matematiche previste dalla teoria generale della relatività di Albert Einstein. Si ritiene che la maggior parte dei buchi neri si formi quando stelle di massa molto elevata – quelle con più di dieci volte la massa del Sole – esauriscono il loro combustibile nucleare e iniziano a raffreddarsi e quindi a contrarsi. Alla fine la gravità prevale e la stella collassa, scatenando un’esplosione catastrofica, cioè una supernova, e lasciandosi dietro un buco nero.

Si presume che la maggior parte dei buchi neri che alimentano i primi quasar si fossero formati in questo modo. Potrebbero essere nati dalla scomparsa delle prime stelle dell’universo che riteniamo si siano formate quando il gas primordiale si raffreddò e si frammentò, circa 200 milioni di anni dopo il big bang. Queste stelle avevano probabilmente massa maggiore delle stelle nate in seguito nel cosmo, il che significa che avrebbero potuto lasciarsi dietro buchi neri pesanti anche diverse centinaia di masse solari. Inoltre è probabile che queste stelle si siano formate in ammassi densi, e quindi i buchi neri creati dalle loro morti si sarebbero fusi insieme, generando buchi neri di varie migliaia di masse solari. Anche buchi neri così grandi, però, sono ancora lontani dalla massa necessaria per alimentare gli antichi quasar.

Come si alimenta un buco nero?

La nostra conoscenza attuale della fisica suggerisce che esista una velocità di alimentazione ottimale, nota come limite di Eddington, a cui i buchi neri acquisiscono massa nel modo più efficiente. Un buco nero che si alimenta alla velocità di Eddington crescerebbe esponenzialmente, raddoppiando la massa ogni 107 anni circa. Per giungere a 109 masse solari, un seme di buco nero di dieci masse solari dovrebbe inghiottire stelle e gas ininterrottamente alla velocità di Eddington per un miliardo di anni. È difficile spiegare come un’intera popolazione di buchi neri possa nutrirsi continuamente in modo così efficiente. Anzi, se i primi quasar fossero derivati da semi di buco nero, avrebbero dovuto alimentarsi ancora più velocemente della velocità di Eddington.

Superare questo tasso è teoricamente possibile in circostanze speciali, in ambienti densi e ricchi di gas, e queste condizioni potrebbero essere state disponibili nell’universo delle origini, ma non sarebbero state comuni e sarebbero state di breve durata. Inoltre, una crescita eccezionalmente rapida può in realtà provocare un “soffocamento” in cui le radiazioni emesse potrebbero alterare e persino bloccare l’afflusso di massa al buco nero, fermandone la crescita. Date queste restrizioni, sembra che un’alimentazione eccessiva possa spiegare alcuni quasar anomali, ma non l’esistenza dell’intera popolazione osservata, a meno che quello che sappiamo attualmente sul limite di Eddington e del processo di alimentazione del buco nero, sia errato.

Queste argomentazioni rientrano in una più ampia rivoluzione della nostra capacità di studiare e comprendere tutte le masse dei buchi neri. Quando nel 2015 il Laser Interferometer Gravitational-Wave Observatory (LIGO) ha rilevato per la prima volta le onde gravitazionali, per esempio, si è riusciti a trovarne la sorgente in due buchi neri in collisione di 36 e 29 masse solari, i cugini leggeri dei buchi neri supermassicci che alimentano i quasar. Il progetto continua a rilevare onde provenienti da eventi simili, fornendo nuovi, incredibili dettagli su ciò che accade quando questi buchi neri si scontrano e deformano lo spazio-tempo che li circonda.

Il prossimo futuro ha in serbo molte rivelazioni: quello che sappiamo dei buchi neri sta per cambiare per sempre.

L’universo nel radio e… III parte

“Il più grande di tutti i corpi è l’Universo stesso e sorprendentemente possiamo vedere il debole residuo della palla di fuoco incandescente del Big Bang tutt’intorno a noi”.

Cosmic Microwave Background (CMB)

Gli oggetti del fondo cosmico che brillano semplicemente come corpi neri, come le stelle, sono raramente bersagli importanti per i radiotelescopi. L’energia emessa cade drasticamente dagli infrarossi nelle microonde e nel radio. Se la sorgente ha una superficie enorme, l’uscita cumulativa totale delle onde radio può essere notevole. Il più grande di tutti i corpi è l’Universo stesso e sorprendentemente possiamo ancora oggi vedere il debole residuo del Big Bang tutto intorno a noi. Questo bagliore residuo è stato scoperto nel 1965 ed è noto come radiazione cosmica di fondo a microonde.

Questa radiazione è stata emessa da una superficie a circa 3000° K (2726,85° C) quando l’Universo aveva circa 375.000 anni e la palla di fuoco stava diventando trasparente. La radiazione di quest’epoca ora pervade tutto lo spazio e a causa dell’espansione dell’Universo negli ultimi 13,7 miliardi di anni circa, si è ora raffreddata ad una temperatura di 2,7° K (-270° C). A questa temperatura l’emissione raggiunge un picco ad una lunghezza d’onda di circa 2 mm nella parte a microonde dello spettro radio.

Come vediamo questa radiazione ora e cosa ci dice sull’Universo? Le osservazioni a questa lunghezza d’onda sono difficili da terra ma possono essere e sono state fatte. I palloni ad alta quota e i satelliti sono gli strumenti migliori e sono stati usati per produrre alcune delle misurazioni più profonde e straordinariamente precise nella storia della scienza.

Quando questo antico segnale fu scoperto da Arno Penzias e Robert Wilson (che ricevettero il Premio Nobel per la Fisica nel 1978 per la loro scoperta), essi riconobbero – dopo aver eliminato tutte le altre possibili fonti di radiazioni, inclusa una buona quantità di escrementi di piccioni nel ricevitore – che il segnale in eccesso che stavano vedendo nel loro telescopio a microonde era l’eco del Big Bang: il fondo cosmico a microonde.

File:WMAP image of the CMB anisotropy.jpg - Wikimedia Commons
Questa immagine, proveniente dai dati raccolti in nove anni da WMAP , mostra le fluttuazioni di temperatura (±200µK) al momento del disaccoppiamento, 13.77 miliardi di anni fa. Queste fluttuazioni corrispondono alle disomogeneità della densità dalle quali sono cresciute le galassie.

Secondo la teoria del Big Bang, le temperature e le pressioni per i primi 300.000 anni dell’universo erano tali che gli atomi non potevano esistere. La materia era invece distribuita come un plasma altamente ionizzato. Il risultato è stato che le informazioni – i fotoni- dell’universo primordiale erano effettivamente intrappolate in un’inpenetrabile nebbia che, ancora oggi, ci nasconde i primordi del nostro Universo.

Con l’espansione dell’universo, tuttavia, la sua temperatura e densità scesero ad un punto in cui i nuclei atomici e gli elettroni furono in grado di combinarsi per formare atomi. Questa è conosciuta come l’epoca della ricombinazione, ed è in questo momento che i fotoni sono stati finalmente in grado di sfuggire alla nebbia dell’universo primordiale ed a viaggiare liberamente. La Radiazione cosmica di fondo è la registrazione di questi fotoni al momento della loro fuga.

la CMB è una delle prove più conclusive a favore della teoria del Big Bang. In particolare, la teoria prevede alcune caratteristiche per la radiazione residua rimasta dalla nascita dell’universo, tutte confermate dalla CMB stessa. Esse sono descritte di seguito:

La dispersione multipla dei fotoni da parte di un plasma caldo nell’universo primordiale dovrebbe portare a uno spettro di corpo nero per i fotoni una volta fuggiti all’epoca della reionizzazione. Questo è esattamente ciò che viene osservato per la CMB. La figura seguente traccia una curva teorica del corpo nero insieme ai dati CMB del satellite COBE (COsmic Background Explorer). L’accordo è talmente buono che è impossibile distinguere i dati dalla curva teorica.

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I dati di COBE corrispondono alla curva teorica del corpo nero in modo che sia impossibile distinguere i dati dalla curva.

I fotoni della CMB furono emessi all’epoca della ricombinazione quando l’Universo aveva una temperatura di circa 3.000 K. Tuttavia, hanno subìto uno spostamento verso il rosso a lunghezze d’onda più lunghe durante il loro viaggio di circa 13 miliardi di anni attraverso l’universo in espansione e sono ora rilevati nella regione delle microonde dello spettro elettromagnetico ad una temperatura media di 2,725 K. Questo concorda bene con ciò che la teoria del Big Bang prevede.

la CMB è incredibilmente uniforme attraverso il cielo, variando di non più di una parte su centomila. Ciò suggerisce che le regioni dell’Universo che ora sono ampiamente separate, una volta erano abbastanza vicine da comunicare tra loro al fine di equalizzare la loro temperatura. Tuttavia, questo non è possibile data la teoria standard del Big Bang, l’età dell’universo e la velocità finita della luce.

La linea rossa nella figura seguente mostra che secondo la teoria, l’Universo aveva un raggio oltre i 10-10 metri a 10-45 secondi dopo il Big Bang. Poiché la velocità della luce viaggia a 3×108 m/s, le informazioni avrebbero potuto viaggiare solo circa 3×10-37 metri durante questo periodo. La teoria del Big Bang rende quindi impossibile per l’intero Universo aver distribuito uniformemente la sua temperatura in questi primi tempi, poiché non tutto l’Universo era in comunicazione. Questo crea un’incongruenza nel modello cosmologico standard nota come il problema dell’orizzonte.

bigbang2.jpg
Il modello Big Bang da solo non può tenere conto della temperatura uniforme della CMB. Un periodo di inflazione è anche necessario in modo che le regioni dell’universo primordiale siano abbastanza vicine da pareggiare termicamente le loro temperature.

Per risolvere il problema dell’orizzonte, gli astronomi introdussero un periodo inflazionistico nel modello del Big Bang (regione blu della figura sopra). Questo improvviso aumento del tasso di espansione dell’Universo subito dopo il Big Bang, risolve non solo il problema dell’orizzonte, ma anche il problema della planarità. È stato quindi accettato come parte dell’attuale modello di concordanza della cosmologia.

Nel prossimo post, parleremo dei raggi X e dell’Universo alle alte energie.

L’universo nel radio e… II parte

Continuiamo il nostro viaggio nello spettro elettromagnetico che al momento ci colloca nella regione delle radio frequenze.

Bremsstrahlung

Questo processo di generazione di radiofrequenza prevede interazioni dirette tra particelle cariche in rapido movimento. Le regioni di gas incandescente eccitate dalle stelle calde, in particolare le regioni che formano le stelle e le nebulose planetarie, sono avvolte da elettroni energetici e protoni che ronzano intorno ad alta velocità. A volte si avvicinano abbastanza l’un l’altro per essere deviati dall’interazione delle loro cariche elettriche. Il processo di deflessione provoca l’emissione di radiazioni che si vede spesso più chiaramente alle lunghezze d’onda nel radio e ai raggi X (sebbene possa essere visto anche in altre parti dello spettro). Le osservazioni di tale radiazione dalle regioni che formano le stelle consentono agli astronomi di conoscere alcune proprietà come ad esempio la temperatura del gas. Questa emissione da particelle interagenti è nota come radiazione bremsstrahlung o “radiazione di frenatura”. È strettamente correlata al processo utilizzato negli strumenti di diagnostica medica a raggi X, in cui gli elettroni ad alta velocità vengono fermati da un bersaglio metallico e l’improvvisa decelerazione (frenata) causa l’emissione di quest’ultimi.

Radio gas!

Una delle più importanti realizzazioni e successive scoperte, in radioastronomia, fu che l’idrogeno, di gran lunga il gas più comune nell’Universo, poteva emettere ed assorbire radiazioni radio con una lunghezza d’onda di 21 cm. Misurare questa radiazione con i radiotelescopi ha aperto grandi opportunità per studiare i movimenti del gas sia all’interno che oltre la Via Lattea sfruttando l’effetto Doppler. Questi “autovelox” astronomici possono misurare il gas anche in regioni completamente oscurate alla vista nello spettro del visibile. Una delle principali applicazioni di questo studio è stata la misurazione delle masse di galassie a spirale. Questa proprietà fondamentale può essere derivata dalla velocità di rotazione del gas in orbita attorno alla galassia a un dato raggio.

L’idrogeno è il più semplice di tutti gli atomi ed è di gran lunga l’elemento più abbondante nell’Universo. L’atomo neutro (non ionizzato) è costituito da un solo protone e un singolo elettrone, ognuno dei quali ha quello che i fisici chiamano spin. Quando l’atomo è isolato e indisturbato, come nel caso dello spazio interstellare, avrà un protone e un elettrone i cui assi degli spin puntano in direzioni opposte (anti-parallelo). Anche il più lieve disturbo ad un atomo può far girare lo spin dell’elettrone in uno stato parallelo, un piccolo cambiamento di energia. Il passaggio al primo stato, o antiparallelo, avverrebbe dopo circa dieci milioni di anni per un atomo completamente isolato e determinerebbe l’emissione di un singolo fotone di radiazione radio di lunghezza d’onda di 21 cm. In pratica, le interazioni con altre particelle possono ridurre drasticamente questa lunga attesa, e naturalmente ci sono molti atomi di idrogeno nell’Universo. Quindi questa radiazione caratteristica è facilmente visibile con i radiotelescopi. Stimolato da Jan Oort, Hendrik van de Hulst nel 1944 predisse che il gas d’idrogeno poteva emettere questa radiazione mentre nel 1951 Purcell dell’Università di Harvard negli Stati Uniti osservò per la prima volta la linea spettrale di 21 cm dallo spazio. Da allora è diventato uno strumento fondamentale per la radioastronomia.

The Collision of M51 – National Radio Astronomy Observatory
Questa immagine della galassia a spirale M51, nota anche come Whirlpool Galaxy e il suo compagno NGC 5195 (in alto) è la combinazione delle osservazioni dell’emissione di idrogeno neutro (in blu) ottenute con il VLA telescope e con immagini a luce visibile dal Digital Sky Survey telescope.

Oggetti interessanti

Sebbene la radioastronomia sia stata costruita sullo studio della radiazione di sincrotrone da particelle energetiche, c’è un crescente interesse per l’emissione di onde radio provenienti da regioni grandi, ma molto fredde, dell’Universo. A volte chiamate nuvole molecolari, questi agglomerati di gas sono abbastanza freddi da contenere polveri e una miscela di molecole che trasmettono le loro firme identificative a lunghezze d’onda radio molto specifiche mentre si preparano a dare vita a nuove generazioni di stelle. Gran parte di questa radiazione termica proveniente da queste regioni fredde ricade nelle parti dello spettro radio – lunghezze d’onda di alcuni decimi di millimetro –  impossibili da captare da terra a causa dell’assorbimento da parte dell’atmosfera. Il veicolo spaziale Herschel dell’ESA è stato progettato per rendere possibili le osservazioni di queste lunghezze d’onda.

Calore da oggetti freddi?

Rilevare le radiazioni di calore da oggetti freddi suona un po’ strano. Ma è un’attività perfettamente legittima per un astrofisico. I corpi neri emettono radiazioni con un’intensità e uno spettro determinati in modo univoco dalla temperatura e dall’area della superficie di emissione. Una nuvola di gas davvero fredda, diciamo -240 C, irradierà uno spettro di corpo nero con un picco ad una lunghezza d’onda di circa un decimo di millimetro. Il cielo vuoto attorno alla nuvola apparirà più freddo di essa così il nostro telescopio, nel lontano infrarosso, vedrà una macchia luminosa su uno sfondo più scuro. Nell’universo distante, con uno redshift sopra i 3 o giù di lì, l’emissione diventerà accessibile ai telescopi sub millimetrici come l’ALMA.

La Nebulosa Testa di Cavallo in luce visibile (a sinistra) è ben definita ma l’area è scura. Alle lunghezze d’onda submillimetriche (a destra), la nuvola è chiara, ma l’immagine risulta sfocata. Idealmente, gli scienziati hanno maggiori informazioni combinando la nitidezza della sinistra con la chiarezza della destra.

Di solito in astronomia è più facile rilevare e studiare oggetti nel nostro vicinato cosmico piuttosto che sforzarsi di vedere quelli più deboli nelle parti più lontane dell’Universo. Quando proviamo a fare questo tipo di astronomia da terra, tuttavia, lo spostamento verso il rosso di oggetti molto distanti può aiutarci, spostando la radiazione di calore freddo in una parte dello spettro radio dove, almeno da siti di osservazione molto asciutti, l’atmosfera è trasparente . Questo spostamento consente l’uso di aree terrestri molto grandi dove ubicare telescopi nello spettro delle microonde. Queste aggregazioni sono molto più grandi rispetto agli strumenti che potremmo lanciare nello spazio. E questa è una delle giustificazioni primarie per la costruzione di siti come l’osservatorio di Cerro Llano de Chajnantor quello che ospita l’ALMA.

Nel terza parte parleremo del CMB. Vi starete chiedendo cos’è? Non siate impazienti, rispetto al tempo cosmico, il tempo fra un post e l’altro è una frazione infinitesimale…

L’universo nel radio e… I parte

Visto attraverso i radiotelescopi, il cielo è irriconoscibile per un astronomo che lavora principalmente nello spettro della luce visibile. Al posto delle stelle nella Via Lattea ci sono oggetti sparsi in tutto l’universo. Le fonti radio sono rare ma spesso intrinsecamente molto potenti, il che le rende visibili a grandi distanze. Le emissioni di queste galassie radio, quasar ed esplosioni stellari titaniche sono il risultato di particelle subatomiche immensamente energetiche che accelerano attraverso regioni di campi magnetici contorti. Questo processo è abbastanza diverso da quello che produce la radiazione di calore dalle superfici delle stelle e ci conduce nel cuore di alcune delle azioni più violentemente energetiche dell’Universo.

Oltre i limiti estremi della luce infrarossa, ci spostiamo nello spettro radio. Alle lunghezze d’onda più brevi (dell’ordine di un millimetro circa) abbiamo la banda soprannominata microonde, che sono comunemente utilizzate nei telefoni wireless. A lunghezze d’onda più lunghe lo spettro radio si estende per centimetri, metri ed oltre. Lo spettro radio è aperto e illimitato, nel senso che non esiste una lunghezza d’onda radio “più lunga”. Tuttavia, in termini pratici, basse energie e lunghezze d’onda estreme oltre un chilometro diventano molto difficili da generare o rilevare. Inizialmente gli astronomi non erano molto ottimisti riguardo alla possibilità di vedere anche gli oggetti che già conoscevano alle lunghezze d’onda radio. A partire dal 1932 e successivamente stimolata dallo sviluppo dei radar a scopo militare durante la prima guerra mondiale, la radioastronomia fu la prima grande escursione dell’umanità nell’universo nascosto. Le prime osservazioni radio portarono a realizzare che l’Universo poteva apparire molto diverso quando osservato attraverso nuovi “occhi” sintonizzati su una diversa radiazione rispetto a quella del visibile.

Risultato immagini per microwaves electromagnetic spectrum

Le onde radio a frequenza estremamente bassa (ELF) con lunghezze d’onda di decine di migliaia di chilometri sono di scarso interesse per i radioastronomi terrestri poiché sono completamente assorbite dalla ionosfera che rappresenta lo schermo delle particelle cariche che avvolge il nostro pianeta. I sottomarini, tuttavia, si affidano a loro per comunicare con il comando base. Quando raggiungiamo alcune decine di chilometri (VLF o Very Low Frequency), tuttavia, il cielo diventa trasparente e rimane tale fino a quando la lunghezza d’onda non scende al di sotto di un centimetro (SHF, Super High Frequency o microwave). I range millimetrici e sub-millimetrici sono afflitti dall’assorbimento dell’acqua presente nell’atmosfera, ma sono di grande interesse per gli astronomi poiché possono essere utilizzati per rilevare e misurare le enormi quantità di materiale freddo tra le stelle e in tutto l’Universo.

Il Sole fu presto identificato come una fonte discreta di onde radio e si scoprì che le poche altre sorgenti radio luminose erano visibili in regioni povere di stelle promettenti. L’obiettivo consisteva nell’abbinare queste fonti di radiazioni radio ad oggetti che erano già familiari agli astronomi nella luce visibile. Il problema era che i primi radiotelescopi, nonostante le loro dimensioni significative, non riuscivano a localizzare con precisione le posizioni delle sorgenti radio nel cielo. Poiché sarebbe difficile e costoso costruire un singolo radiotelescopio abbastanza grande da raggiungere la risoluzione necessaria, i costruttori di telescopi dovevano fare uno sforzo per capire come collegare antenne molto distanziate fra loro in modo da consentire di agire come un singolo telescopio più grande. La risultante tecnica dell’interferometria è oggi ampiamente utilizzata, specialmente alle lunghezze d’onda radio, per consentire l’imaging ad alta risoluzione usando array di radiotelescopi. Montando alcuni di questi sui satelliti, i telescopi in questi array possono anche essere separati da distanze maggiori del diametro della Terra. I primi interferometri consentirono l’identificazione di fonti misteriosamente poco appariscenti per le galassie dall’aspetto peculiare dei telescopi a luce visibile e gli apparenti resti di esplosioni stellari chiamate supernovae. Perché questi emettono quantità così abbondanti di radiazioni radio e così poca luce visibile?

Risultato immagini per radiotelescopio alma
La risoluzione di un telescopio è la capacità di distinguere i dettagli fini, nota anche come potere di risoluzione spaziale. Essa dipende in modo relativamente semplice sia dalla dimensione del telescopio sia dalla lunghezza d’onda della radiazione che sta visualizzando. Maggiore è il numero di lunghezze d’onda della luce che si adattano ad uno specchio o obiettivo del telescopio, maggiore è la risoluzione del telescopio stesso. Poiché le onde radio sono in genere 100000 volte più lunghe delle onde visibili, un radiotelescopio dovrebbe avere un diametro di circa 240 km per ottenere la stessa potenza di risoluzione di Hubble, che ha uno specchio di soli 2,4 metri di diametro.

Risultato immagini per arecibo observatory
Il radiotelescopio a piatto unico di Arecibo a Puerto Rico ha una larghezza impressionante di 305 metri, ma non raggiunge nulla di simile alla risoluzione raggiunta anche dal più piccolo telescopio a luce visibile. Inoltre, il piatto non può essere guidato ed è limitato all’osservazione di una stretta fascia di cielo. Tuttavia, in seguito ai primi esperimenti riusciti nel 1946 in Australia, gli astronomi hanno utilizzato la tecnica dell’interferometria per costruire array di telescopi che combinano i segnali in un modo che raggiunge la risoluzione (ma non l’area di raccolta) di uno strumento delle dimensioni pari alla massima separazione delle antenne. Utilizzando l’interferometria gli astronomi possono combinare le onde luminose di due telescopi allineando con precisione le creste e le depressioni dell’onda. Le più grandi matrici interferometriche combinano segnali provenienti da telescopi sparsi in tutto il mondo, che agiscono insieme come un unico strumento quasi delle dimensioni della Terra e in grado di accertare le posizioni delle fonti con una precisione straordinaria che va oltre i più grandi telescopi a luce visibile.

Radiazione di sincrotrone.

Il bagliore del cielo nel radio deriva da processi molto diversi da quelli osservati alle lunghezze d’onda visibili, infrarosse e ultraviolette. I processi termici del corpo nero non sono forti in questa parte dello spettro. La maggior parte delle sorgenti radio luminose sono siti di eventi violentemente energetici, come i buchi neri, in cui le particelle subatomiche cariche elettricamente vengono accelerate fino a quasi la velocità della luce. Sono i movimenti di queste particelle cariche in rapido movimento che generano più comunemente l’emissione nel radio.
Come suggerisce il termine radiazione elettromagnetica, gli effetti dei campi elettrici e magnetici sono strettamente correlati. Quando una particella carica come un elettrone o un protone si muove attraverso un campo magnetico, viene deviata e inviata su un percorso a spirale lungo le linee del campo magnetico. Questa carica oscillante cederà parte della sua energia all’emissione di radiazioni, in particolare alle lunghezze d’onda radio.
Alcuni dei primi dispositivi acceleratori di particelle costruiti dai fisici si chiamavano “sincrotroni”. Le onde radio emesse dalle particelle accelerate e la relativa perdita d’energia associata durante il movimento a spirale attraverso il campo magnetico dei dispositivi, diedero il nome di radiazione di sincrotrone. Sorprendentemente, l’Universo è pieno di molti sincrotroni cosmici su tutte le scale e il processo ben studiato sulla Terra ci consente di comprendere processi simili che si verificano in tutto l’Universo.

sincrotrone

crabnebula
La nebulosa del granchio è il residuo di una stella che è stata vista esplodere nell’anno 1054 dagli osservatori cinesi, un evento che ora chiamiamo supernova. La struttura estesa che vediamo ora, quasi mille anni dopo, è sorprendentemente simile quando viene ripresa con i radiotelescopi, i raggi infrarossi, la luce visibile e i raggi X. Questo perché le radiazioni che vediamo in tutte queste diverse lunghezze d’onda provengono dalla stessa meccanismo di elettroni ad alta velocità (e probabilmente anche elettroni di antimateria, chiamati positroni) a spirale in un campo magnetico aggrovigliato. Questo tipo di radiazione è chiamata radiazione di sincrotrone. Gli elettroni e i positroni più energetici emettono raggi X mentre quelli meno energetici possono irradiare onde radio. Quelli con energie intermedie si irradiano nel visibile e nell’infrarosso. Si ritiene che l’origine di queste particelle energetiche sia una pulsar o una stella di neutroni rimasta dopo l’esplosione della stella.

cygnus
Nei siti più energetici dell’Universo, la radiazione di sincrotrone può essere emessa attraverso l’intero spettro elettromagnetico e può anche essere vista con i telescopi nella gamma infrarossa, visibile, ultravioletta e dei raggi X. Il meccanismo di sincrotrone all’interno e attorno ai buchi neri in genere rappresenta le più potenti fonti radio nel cielo, come Cygnus A qui rappresentata.

 

L’Universo agli ultravioletti… II parte.

Telescopi per l’ultravioletto.

Come con gli infrarossi, i telescopi per l’ultravioletto possono impiegare molte delle tecnologie ottiche utilizzate da quelli che operano nello spettro del visibile, ed in particolare nella banda near-ultraviolet (400-300 nm). Gli specchi progettati per riflettere e focalizzare la luce ultravioletta, tuttavia, devono essere lavorati con maggiore precisione a causa delle lunghezze d’onda più corte. La contaminazione di specchi e lenti da parte di depositi organici vaganti è particolarmente dannosa nell’ultravioletto e l’ottica e gli strumenti devono essere tenuti scrupolosamente puliti. Mentre la luce near-ultraviolet può essere osservata da terra, i vantaggi delle osservazioni dallo spazio crescono rapidamente nel range del mid e del far ultraviolet. Il telescopio spaziale Hubble, oltre a lavorare nel visibile, ha strumenti come fotocamere e spettrometri, che sono sensibili fino alle lunghezze d’onda dell’ultravioletto lontano. I rivelatori ottimizzati per la luce visibile hanno scarsa efficienza a lunghezze d’onda ultraviolette più corte, quindi i telescopi ultravioletti più sensibili hanno tecnologie progettate appositamente per questa parte dello spettro luminoso. Ad esempio, Galaxy Evolution Explorer, o GALEX, utilizza un innovativo rivelatore che visualizza la posizione e il tempo di arrivo di ciascun fotone ultravioletto in ingresso. I programmi per computer possono utilizzare questi dati per creare successivamente delle immagini, piuttosto che generare un’immagine completa leggendo direttamente dall’array del rivelatore, come avviene comunemente con altri telescopi. GALEX è stato progettato per vedere le lontane e deboli sorgenti ultraviolette dell’Universo, mentre altri telescopi come ad esempio l’Osservatorio Solare ed Eliosferico SOHO hanno una sensibilità inferiore ma un design progettuale molto robusto necessario quando si studia la fonte luminosa ultravioletta del nostro cielo: il Sole.

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La magnifica galassia a spirale M81 vista in luce ultravioletta.

Scienza dell’ultravioletto.

Sole e Pianeti.

Il Sole è un perfetto laboratorio per lo studio degli ultravioletti poiché questa banda dello spettro ci consente di osservare i gas più caldi della cromosfera solare e della corona. La temperatura del Sole aumenta al di sopra della sua superficie visibile attraverso l’estesa corona. Il gas caldo si sviluppa lungo i campi magnetici altrimenti invisibili, rendendo possibile la tracciatura della sua attività. Osservando l’emissione della linea spettrale ultravioletta dalle tracce di ferro presenti nell’atmosfera solare esterna, la corona, è possibile osservare come i campi magnetici particolarmente intensi del Sole possono contribuire all’innalzamento della temperatura in questa regione. Le temperature qui possono variare da decine di migliaia a milioni di gradi centigradi, ben oltre la sua temperatura superficiale di 5500° C.
La luce ultravioletta ci permette anche di sondare i campi magnetici degli altri pianeti del nostro sistema solare. Le particelle cariche espulse dalla corona del Sole possono rimanere intrappolate all’interno di questi campi. Formando una spirale verso i poli, possono produrre scariche luminose nell’atmosfera, e creare le meravigliose aurore che possiamo osservare anche sul nostro pianeta Terra. Queste aurore possono essere particolarmente luminose nell’ultravioletto, e come nel caso di Giove e Saturno, si manifestano nell’alta atmosfera grazie al soffio particellare del nostro astro.

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Il Sole visto agli ultravioletti.

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L’aurora su Giove.

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L’aurora su Saturno.

Formazione stellare.

Oltre i limiti del Sistema Solare, la principale fonte di emissione ultravioletta è rappresentata dalle stelle più calde. Stelle simili al nostro Sole possono contribuire in modo significativo alla banda nel near-ultraviolet, ma nel far-ultraviolet le stelle più massicce la fanno da padrone. Queste enormi stelle sono relativamente poche, ma compensano il loro numero ridotto con una luminosità sorprendente: una stella 20 volte più grande del Sole è 20.000 volte più luminosa, e la maggior parte di quella luce viene emessa nell’extreme-ultraviolet. Le stelle più massicce non vivono a lungo, solo pochi milioni di anni, un battito di ciglia in confronto ai 10 miliardi di anni di aspettativa di vita del nostro Sole. Esse non si allontanano di molto dal luogo in cui si sono formate e la loro luce ultravioletta ci consente di identificare le attuali regioni di formazione stellare attive. In alcune galassie ciò ha portato alla scoperta di strutture a spirale che si estendono ben oltre il disco di luce visibile osservabile.

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Il sistema binario z Camelopardalis osservato attraverso il telescopio GALEX.

Le stelle massicce hanno una forte influenza sulle regioni che le hanno prodotte. Non appena una di queste innesca la fusione nucleare nel suo nucleo, l’alta temperatura stimola un torrente di radiazioni ultraviolette. L’energia dei fotoni ultravioletti è così grande che può distruggere le molecole delle polveri circostanti spazzandole via letteralmente dalle regioni di formazione. Ovunque si trovino queste giovani stelle brillanti, di solito ci sono enormi nuvole di polvere che vengono distrutte dalla luce intensa delle stelle stesse. Le regioni più dense della nuvola si erodono più lentamente, lasciando dietro di sé imponenti colonne di polvere e gas. Dato che queste regioni sono le nuvole più dense nella zona, spesso ospiteranno più stelle baby nel processo di formazione. Ogni qualvolta si osservano massicci pilastri di polvere nella luce visibile o all’infrarosso, esse ci indicano la presenza nelle vicinanze di una futura generazione di stelle in fase di formazione.

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L’ammasso M16 con una popolazione di soli 2 milioni di anni è circondato da nuvole di gas incandescente  e polveri che fungono da nursery.

L’Universo agli ultravioletti… I parte.

La luce ultravioletta in gran parte ha origine nel bagliore delle stelle. Le stelle più calde e massicce brillano più luminose nell’ultravioletto, ma anche il nostro Sole più freddo produce ancora una buona quantità di luce in questa parte dello spettro. Lo spettro dell’ultravioletto inizia appena oltre il blu-violetto a una lunghezza d’onda di 400 nanometri e include lunghezze d’onda fino a 10 nanometri alla sua estremità finale. Ricordatevi la regola: più breve è la lunghezza d’onda, maggiore è l’energia. Un singolo fotone ultravioletto può trasportare più energia di 50 o più fotoni di luce rossa!

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Immagine nell’ultravioletto della galassia di Andromeda M31. E’ un mosaico di circa 330 immagini che coprono una distanza di circa 200.000 anni luce, catturate dal telescopio spaziale Swift della NASA.

Lo spettro ultravioletto può essere suddiviso in quattro regimi di energia crescente.

Near-ultraviolet: 400-300 nm

Queste lunghezze d’onda si trovano appena oltre il limite della visione umana e comprendono la cosiddetta “luce nera” o lampada di Wood, usata spesso nelle manifestazioni mondane per illuminare una varietà di materiali fluorescenti come carta bianca, vernici, inchiostri etc… Questo range di radiazioni provenienti dal Sole raggiungono la Terra più facilmente e possono essere osservate da terra.

Mid-ultraviolet: 300-200 nm

La radiazione medio-ultravioletta proveniente dal Sole e filtrata dall’ozono presente nella nostra atmosfera, raggiunge ancora il terreno in dosi sufficienti a causare scottature e danni che possono portare al cancro della pelle come conseguenze di lunghe e protratte esposizioni nel tempo.

Far-utraviolet: 200-122 nm

L’atmosfera è essenzialmente opaca alla radiazione ultravioletta, quindi i telescopi spaziali o i razzi ad alta quota vengono utilizzati per le osservazioni in questo range. Questa luce è sufficientemente distruttiva per uccidere i batteri, quindi viene usata per la sterilizzazione degli oggetti. Inoltre rappresenta la più grande minaccia per la diffusione della vita, come il trasporto nello spazio di molecole organiche che possono trovarsi sulla superficie di oggetti rocciosi e che potrebbero raggiungere un pianeta come asteroidi.

Extreme-ultraviolet: 122-10 nm

Questa banda di ultravioletti è la più energetica delle altre e si estende sino al confine dello spettro dei raggi X. La sua emissione è solitamente associata alle stelle più calde presenti nel nostro Universo.

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Focus dello spettro EM sul range degli ultravioletti.

Sulla Terra siamo al riparo da gran parte dell’ultravioletto proveniente dal Sole, poiché l’ozono presente nella nostra atmosfera superiore filtra una grande quantità di questi raggi. L’assorbimento significativo inizia oltre i 300 nm, rendendo le osservazioni a terra molto difficili a queste lunghezze d’onda. Mentre da una parte è una rovina per gli astronomi, questo rende l’esposizione alla luce del sole molto più sicura per noi. I fotoni ultravioletti trasportano molta più energia dei fotoni visibili, abbastanza da danneggiare la nostra pelle e persino il DNA nelle nostre cellule. Paradossalmente, la luce ultravioletta è responsabile degli stessi processi (nella nostra atmosfera) che impediscono a gran parte di essa di raggiungere il suolo. L’ozono, che è il principale filtro contro le più terribili forme di ultravioletto, è in realtà prodotto nella nostra atmosfera superiore, quando i fotoni provenienti dallo spazio interagiscono con le molecole di ossigeno.

Southern Pinwheel Galaxy (M83) radio and UV radiation
Immagine della galassia M83 nel radio (in rosso) e nell’ultravioletto (in blu)

Storia

Il fisico tedesco Johann Ritter ha scoperto per la prima volta l’esistenza della luce ultravioletta nel 1801 solo un anno dopo che William Herschel aveva scoperto la luce infrarossa. Ispirato dalle esplorazioni di Herschel su ciò che stava al di là del rosso, Ritter voleva sapere se esisteva anche una forma invisibile di luce che si estendeva oltre il blu.
Il “rivelatore” di Ritter era composto da cloruro d’argento chimico (comunemente usato nella carta bianca e nera per fotografie), che diventava nero se esposto alla luce. Facendo filtrare la luce solare attraverso un prisma, posò dei campioni di cloruro d’argento lungo i diversi colori dello spettro. Mentre la luce rossa mostrava poca reazione, il reagente diventava sempre più scuro verso il blu e il violetto. C’era forse un altro tipo di luce che si nascondeva oltre il viola?

La scoperta di Ritter di questi cosiddetti raggi “chimici” stabilì l’idea che lo spettro è incorporato in uno più ampio di luce, il resto del quale è invisibile ai nostri occhi. In seguito abbiamo appreso che non tutte le creature sono insensibili alla luce ultravioletta come gli esseri umani. Un certo numero di uccelli, api e altri insetti è noto per la capacità di vedere nell’ultravioletto. Un’abilità sfruttata da alcune piante da fiore che attraverso segnali guida (a noi invisibili) attraggono gli insetti impollinatori.

La stella Mira e la sua splendida coda lunga 13 anni luce composta di gas stellari prodotta negli ultimi 30.000 anni e visibile nell’ultravioletto.

Fonti dell’ultravioletto

Blackbody

La maggior parte della luce ultravioletta che vediamo nell’Universo proviene dalle stelle più calde. La luce ultravioletta proviene dalla parte a “lunghezza d’onda corta/alta energia” della radiazione termica di corpo nero (vedi il post “Il colore delle stelle“) ed è emessa ad alte temperature. Le stelle con temperature superiori a 7.500 °C sono effettivamente più luminose nell’ultravioletto. Le stelle più massicce dell’universo possono superare anche i 40.000 °C con valori d’emissione della radiazione di corpo nero nell’ultravioletto estremamente elevati. Le prime stelle che si sono formate nell’universo potrebbero essere state ultra-massicce e potrebbero aver raggiunto temperature superiori a 100.000 °C mentre, anche adesso, i nuclei esposti di stelle che hanno soffiato via il gas per formare nebulose planetarie, possono essere ancora più caldi. Non dimentichiamo tuttavia, che, anche una stella relativamente fredda come il Sole, a soli 5.500 °C è in grado di generare una quantità significativa di luce ultravioletta.

Linee spettrali

Oltre alla radiazione termica di corpo nero, ci sono un certo numero di linee spettrali che si trovano in tutta la parte dell’ultravioletto. Molti elementi comuni, tra cui l’idrogeno e l’elio, hanno importanti transizioni in questa parte dello spettro e sono spesso utilizzati dagli astronomi per studiare il gas che può assorbire ed emettere questi caratteristici fotoni ultravioletti. Anche la molecola più comune nell’universo, l’idrogeno molecolare, costituito da due atomi di idrogeno legati l’uno all’altro, ha la sua emissione primaria nell’ultravioletto.

Nella seconda parte parleremo degli enormi vantaggi derivanti dall’osservazione dallo spazio degli oggetti celesti nel medio ultravioletto ed oltre, rispetto alle osservazioni effettuate da terra nel vicino ultravioletto.